Nuova Zelanda, un “laboratorio” di diversità unico al mondo

di Javier Barca

Il volto di Nanaia Mahuta, ha conquistato le prime pagine e le copertine dei giornali di tutto il mondo pur essendo già conosciuta, e non solo in Nuova Zelanda, come la “donna dei record”. Mahuta è, infatti, la prima donna Maori ad entrare nel governo col ruolo di Ministro degli Esteri. Prima di lei, solo un uomo Maori era riuscito a ricoprire la carica di Ministro nella storia di questo giovane paese del Pacifico. Perché allora la notizia di Mahuta, in politica da oltre vent’anni come parlamentare, ha fatto tanto scalpore? Forse perché è “indigena” o perché con il suo moko kauae, il mento tatuato tipico delle donne Maori, compirà missioni diplomatiche in tutto il mondo?

Dopo aver vissuto in questo magnifico arcipelago dell’Oceania credo di poter affermare che il grande interesse per Mahuta scaturisca da altre considerazioni: a prescindere dall’aspetto folkloristico della notizia, la Nuova Zelanda sta diventando un eccezionale “laboratorio” d’integrazione sociale e di apertura alle diversità su cui il resto del mondo tiene gli occhi puntati.

Molti ritengono che a dare il via al “nuovo corso” neozelandese sia stata la Premier Jacinda Arden, 40 anni, con due figli e un compagno. È la leader del partito laburista ed è diventata a 37 anni la più giovane Primo Ministro donna del mondo. Non a caso il grande cambiamento della politica, o meglio dei politici neozelandesi, ha preso il via nel 2017 con la prima elezione della Arden che peraltro è stata riconfermata alla guida del governo dopo aver vinto per la seconda volta le elezioni parlamentari di quest’anno. E’ innegabile che questa donna abbia fatto dell’inclusivita’ uno dei suoi obiettivi: il Parlamento kiwi è attualmente il più rappresentativo, giovane e diversificato del mondo. E senz’altro, è il caso di dirlo, anche il più “cool”.

I politici di origine europea, dopo esser stati al potere per oltre trent’anni, hanno lasciato la loro poltrona a una nuova generazione di politici di diversi partiti, molti dei quali millennials, che hanno letteralmente stravolto la fisionomia della Camera. Basti pensare che il primo partito in Parlamento, quello laburista, con 64 su 120 seggi, conta donne per la metà dei suoi eletti, ben 16 deputati Maori e un numero considerevole di deputati originari del pacifico, africani e indiani. I dieci seggi del partito verde sono occupati in maggioranza da donne, leader indigeni e rappresentanti della comunità LGBTQ. Non è tutto: almeno il 10% del Parlamento è dichiaratamente LGBTQ, a partire dall’attuale Ministro delle Finanze, Grant Robertson, il primo uomo gay con la carica di vicepremier.

L’ingresso di Nanaia Mahuta nel governo – salutato in tutto il mondo con un certo stupore – è quindi “solo” la punta dell’iceberg di una serie di cambiamenti nel segno della diversità intervenuti, non certo facilmente, nella “Nuova Terra di Mare” (la traduzione dell’olandese “Zeeland”).

Chi approda nell’arcipelago dovrà per forza immergersi in decenni di storia che hanno visto la Nuova Zelanda fare i conti col proprio passato coloniale per restituire al popolo Maori, il primo a insediarsi in quelle terre, i suoi diritti sovrani. I Maori vi giunsero in ondate successive, tra il 1000 e il 1300 d.C. Si dice provenissero dalle attuali isole Hawaii e comunque alla fine del XVIII sec. erano circa un milione, socialmente organizzati come le tribù polinesiane, dediti all’agricoltura ed alla pesca. I colonizzatori europei, fino alla firma del Trattato di Waitangi (1840) erano appena duemila, per lo più insediati nell’Isola del Nord. Quel trattato, considerato l’atto costitutivo della Nazione, avrebbe dovuto dare il via a una colonizzazione pacifica delle nuove terre. Ma il testo dell’accordo, in due versioni, creò ambiguità: nel testo in inglese si garantiva alle tribù il possesso esclusivo delle terre, mentre nel testo in maori si parlava di sovranità sulle loro terre. La diversa interpretazione fu all’origine delle future rivendicazioni dei Maori che, intanto, alla fine del XIX secolo, erano ridotti ad appena 40mila. In un secolo, insomma, erano “scomparsi” più di 900mila abitanti originari del posto, schiacciati dall’enorme pressione migratoria dei settlers bianchi arrivati dopo il 1840, che consideravano quel popolo “razza inferiore”.

Bisognerà aspettare gli anni ’70 perché i Maori prendano coscienza dei loro diritti: nascono allora i primi movimenti di protesta che rivendicano il diritto alla sopravvivenza e alla tutela della loro cultura, e chiedono la revisione del Trattato di Waitangi per ottenere la restituzione delle terre e dei diritti di pesca nonché il riconoscimento della Nuova Zelanda come terra dei Maori, usurpata dai coloni.

Un rapporto ufficiale diffuso nel 1980 inchiodò la “vecchia” classe politica alle proprie responsabilità sottolineando come “più devastante della guerra dei fucili (n.d.r combattuta tra tribù Maori nel XIX) fu la politica promossa dal Parlamento in tempo di pace”, con l’oppressione sistematica dei Maori e la confisca massiccia delle loro terre. Fu anche quel rapporto ad aprire la strada alle cosiddette “politiche di compensazione”, la restituzione di terre e di altri beni a titolo di compenso per le confische illegali. Queste politiche, assieme alle misure per l’istruzione dei maori, la valorizzazione della loro cultura e lingua, stanno finalmente dando risultati.

Oggi i Maori sono riconosciuti come “popolo indigeno”, distinto da altre minoranze e gruppi etnici, anche dalle Nazioni Unite. E’ una specificità importante per tutelare i loro diritti che esistono in quanto tali, indipendentemente dal peso demografico di questo popolo che oggi rappresenta il 15% dei neozelandesi. In questa prospettiva dunque Mahuta è l’esponente dell’orgoglio di essere indigena e di ciò che questa condizione rappresenta. Non è casuale la scelta nel 2016 di farsi il tatuaggio facciale sacro dei Maori. Prima di lei il Moko non era mai entrato nel Parlamento neozelandese, ne’ in un grande consesso internazionali. “Il Moko – aveva spiegato Mahuta – è una dichiarazione d’identità, un passaporto, e io in questo momento della mia vita mi sento pronta a dichiarare in modo inequivocabile che questa sono io, e questa è la mia posizione nel mio paese” (il tradizionale tatuaggio sul mento racconta la genealogia e quindi l’unicità della persona che lo porta e il suo ruolo particolare nella comunità). Anche Marama Fox, co-leader del partito Maori,  all’epoca parlamentare, si era detta fiera che con il tatuaggio di Mahuta fosse finalmente tornato in politica “un simbolo di autodeterminazione, cancellato durante il periodo coloniale, che ora da voce alle donne Maori e alla loro eredità”.

Fino a poco tempo fa, anche sul Moko aleggiavano i pregiudizi e, infatti, il tatuaggio era generalmente associato alle gang locali. Confermando la sua volontà di rompere col passato, il tatuaggio di Mahuta diventa invece simbolo di autodeterminazione, un elemento che identifica una cultura di cui Mahuta e le tribù Maori sono assolutamente fieri. Segno (positivo) che la Nuova Zelanda, prima ancora di essere un “laboratorio” di diversità, è un Paese che certamente sta facendo pace con se stesso e con i suoi fantasmi del passato.

Javier Barca

Nato a Madrid, laureato in Economia e Commercio e in Scienze del Turismo, la sua attività lavorativa nel settore privato lo porta a New York, dove trascorre quattro anni in veste di dirigente aziendale. Si trasferisce poi a Roma, al seguito del compagno diplomatico, ora marito, e qui si reinventa una professione lavorando per il celebre brand d’interni Flamant.  Ha vissuto a Buenos Aires, Nuova Delhi e Wellington, cercando di lavorare senza mai perdere di vista la sua passione: la trasformazione degli spazi vuoti in ambienti belli, eleganti e sempre sorprendenti. E’ consigliere ACDMAE responsabile per le questioni sociali.

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