Autunno ucraino

di Nicole Ludwig Nicolaci

Memorie di Nomadi per caso (Qui Edit, 2024) è unantologia di racconti brevi nata per dare voce ai consorti dei funzionari del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale: una voce poco presente nella società e nella letteratura.

Durante gli incontri del Gruppo di lettura e conversazione in italiano, è emersa la ricchezza delle esperienze vissute allestero: momenti difficili, intensi o indimenticabili, affrontati spesso lontano da casa.

Abbiamo quindi invitato i soci ACDMAE, gli iscritti di Insieme a Roma e i membri del Gruppo di lettura a raccontare frammenti della loro vita all’estero. Per molti scrivere è stato un modo per elaborare emozioni e difficoltà, acquisire consapevolezza e, in alcuni casi, affrontare traumi. Per questo, il progetto è stato anche definito un esercizio di scrittura terapeutica. Altri hanno contribuito con ricordi più leggeri o divertenti, offrendo un variegato e vivido affresco della vita di chi accompagna un diplomatico allestero.

Un altro scopo era rompere lo stereotipo del consorte sempre impegnato tra feste e ricevimenti, mostrando invece la complessità di questa esperienza.

Liniziativa valorizza anche il ruolo dellAssociazione Consorti, come luogo di supporto, ascolto e condivisione.

Il libro raccoglie scorci di vite avventurose, difficili, curiose e comiche, con uno stile scorrevole e coinvolgente, capace di regalare emozioni e nuove prospettive.

Francesca Andreini e Federica Bartolini

 


 

Autunno ucraino

 

Kiev in autunno. Kiev in guerra. Una stagione piena di incertezze, piena di buio. Eppure vista dalla finestra del nostro appartamento, la città pareva quasi normale. Su Kiev sembrava stendersi un ombrello invisibile, come uno scudo protettivo: la capitale ucraina era stata finora risparmiata dagli attacchi russi. Ma sapevo che là fuori, in realtà, la gente si aggrappava alla speranza di ricreare una vita quotidiana, priva di un sonno sereno e continuamente in pensiero per i propri cari al fronte e per le città martoriate dalle bombe e dai proiettili.

Che cosa ci fai tu qui? mi interrogai e feci scorrere nella mia mente le immagini di questo viaggio fino a Kiev.

 

Era agosto e io mi trovavo nella campagna boema a trascorrere l’estate. Erano passati sei mesi da quando era scoppiata la guerra in Ucraina. Da allora, la nostra vita era stata messa a una prova del tutto inaspettata e imprevedibile: mio marito Federico, appena arrivato a Kiev come console, si trovava al centro di avvenimenti storici che solo gradualmente riuscivo a comprendere, mentre io ero rimasta con i nostri due figli in Italia. Richard aveva quattro anni e il piccolo Theodor pochi giorni di vita. Il tempo sembrava andare a rallentatore. Andare a Kiev era assolutamente impensabile. C’era solo da aspettare e mantenere la calma; sostenere e comprendere a distanza. Sperare. Ma poi, in un pomeriggio di fine estate, squillò il telefono: “Te la sentiresti di venire?”

Due giorni dopo ero alla stazione centrale di Praga in direzione Prezmyszl, l’ultima città prima del confine polacco-ucraino. “Sei impazzita?” aveva chiesto mia madre. “Lascia i bambini qui!”, aveva suggerito mia nonna. Le abbracciai entrambe e salii con Richard e Theodor sul treno.

Il viaggio fino a Kiev durò due giorni. In Polonia, Federico era venuto a prenderci con la macchina, e al tramonto raggiungemmo il confine. La frontiera con l’Ucraina era sovraffollata. Negli occhi delle persone si leggevano disperazione e stanchezza. Posti di blocco e code infinte da entrambi i lati: organizzazioni umanitarie, giornalisti, volontari che erano in attesa di entrare nel paese. Nella direzione opposta, invece, si estendeva una coda infinita di camion e di auto familiari. Sul lato della strada c’erano persone coraggiose che stavano cercando di raggiungere il confine a piedi. Madri che stringevano i loro figli tra le braccia. Mi sentivo fuori posto. Ciò che mi aveva spinto a venire a Kiev, il desiderio di ritrovare un momento di vita familiare in quattro, mi sembrava un capriccio in confronto alla reale sofferenza della guerra. Ma il controllo dei militari interruppe il mio pensiero.  Ci condussero in un passaggio separato per i diplomatici. Non c’era nessuno tranne la nostra macchina. Le luci al neon sopra di noi ci accecavano. Tre soldati controllarono i nostri passaporti e poi scarabocchiarono la data e un numero su un pezzo di carta. La nostra macchina partì verso sera. Nessuna autostrada. Nessuna luce. Non riuscivo a credere di aver veramente varcato il confine ucraino.

 

I primi giorni furono pieni di felicità e di gratitudine per avere la famiglia riunita. Vivevamo in una sorta di bolla. Federico ne usciva per andare in Ambasciata, mentre io esploravo la città, cercando di capirla e di percepire la tensione che c’era nell’aria. Ammiravo – e ammiro ancora – il coraggio e la forza della gente, determinata a mantenere una parvenza di normalità nell’assurdità della guerra. I bar e i ristoranti erano aperti, i teatri andavano avanti con i loro cartelloni. Le donne indossavano abiti eleganti con guanti e cappelli, e i bambini correvano nei parchi. Nel centro di Kiev si vedevano allora poche tracce della guerra: cavalli di Frisia e sacchi di sabbia erano disposti in punti nevralgici della città. Era un equilibrio fragile che gli abitanti avevano creato, ma il rumore lacerante degli allarmi antiaerei lo spezzava continuamente. In quei momenti la città si fermava un istante per riorganizzarsi: alcuni cercavano un rifugio sicuro nelle profondità della metropolitana, altri si nascondevano nelle cantine dei palazzi. Ma c’erano anche tanti che continuavano semplicemente a camminare, a guidare, a vivere. La guerra era diventata parte della loro vita. Io invece sobbalzavo ad ogni suono delle sirene e fissavo il cielo, trattenendo il respiro. Poi, appena l’allarme cessava, la città tirava un sospiro di sollievo. E così facevo anche io. Era una sensazione strana e intensa quella che sentivo, impastata di paura, adrenalina e curiosità. Non avevamo pianificato per quanto tempo sarei rimasta, ma speravamo in un indefinito “il più a lungo possibile”. E con questo spirito di speranza – e trascorsi i primi giorni – decisi di mandare Richard comunque all’asilo della scuola tedesca, una delle poche scuole internazionali che nonostante la situazione fosse rimasta aperta.

Molti studenti e insegnanti erano fuggiti in Polonia. Richard si trovò in classe con un insegnante gentile e altri due bambini, Andrei e Tanyushka. La scuola, un basso edificio grigio, era recintata da un complesso di palazzi sovietici. Una visuale tipica per i paesi dell’ex Unione Sovietica. Ogni volta che il pesante cancello di ferro della scuola si chiudeva, mi assaliva il gelo, anche se Richard correva felicemente verso la sua maestra, con la merenda in una mano e lo zaino di emergenza nell’altra. Tutti i bambini dovevano avere uno zainetto con “il necessario”. In caso di allarme. In quei momenti scendevano tutti nel bunker: il seminterrato della scuola, provvisoriamente allestito con dei sacchi di sabbia. Richard scendeva spesso giù, ma per lui era un’avventura. I bambini si costruivano delle tende con le loro coperte. E il loro gioco preferito era “caccia a Putin”, come chiamavano il nascondino. Ma il mio cuore si fermava ogni volta che suonavano le sirene e lui era dall’altra parte della città.

 

La speranza di vivere la quotidianità in quattro a Kiev iniziò a svanire dopo alcune settimane. Verso la fine di settembre l’intensità degli allarmi era aumentata. Con l’arrivo delle piogge autunnali l’aria a Kiev diventava sempre più pesante e fredda. Dall’est del paese ci giunse la notizia del referendum sull’annessione delle quattro regioni filo-russe. Intuii che la situazione poteva precipitare e capii subito che la nostra bolla di vita era giunta al termine. Era l’ultima settimana di settembre quando risalii in macchina per ripartire verso l’Italia. Con tristezza, ma allo stesso tempo con sollievo, sentendo di fare la scelta giusta per la sicurezza dei bambini, alzai un’ultima volta gli occhi verso il nostro appartamento e salutai per sempre Kiev.

 

Mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto prima che potessimo riunirci di nuovo come famiglia.

Ci sono voluti due anni.

Nicole Ludwig Nicolaci

Nata a Francoforte e cresciuta a Praga, si è laureata in filosofia, storia e italianistica presso l’Università di Friburgo, in Germania. Dopo gli studi si trasferisce in Italia con il marito in carriera diplomatica. A Roma, lavora come corrispondente della Tv nazionale ceca CT24. Nel 2021 segue il marito a Caracas, in Venezuela per poi trasferirsi, con la famiglia, a Kiev. Dopo oltre due anni di separazione famigliare dovuta alla guerra in Ucraina, si trova attualmente in Australia, a Perth, dove insegna italiano e si dedica alla scrittura.

Nessun commento disponibile

Lascia un commento

Your email address will not be published.