Vila Street, a Teheran, cercando un tempo e uno spazio perduto

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di Shahin Modarres

La nostalgia è il regno sicuro del conforto. E’ quella fiamma che vive dentro gli uomini e si accende all’ascolto di un suono, alla percezione di un profumo antico, alla sensazione della pioggia che bagna la pelle in una sera d’estate. La nostalgia si nutre di piccoli gesti quotidiani che ricordano tempi migliori. Il mio regno della nostalgia è nel quartiere dove sono nato: “Vila”. In Iran il quartiere si chiama mahalleh e ogni città ha diversi mahalleh, ognuno con caratteristiche proprie che lo rendono unico. Anche Teheran, da quando divenne la capitale del Paese, 226 anni or sono, iniziò a sviluppare i suoi quartieri tipici, per lo più sconosciuti a chi non vi abitava. Gli armeni si trovavano in due mahalleh: Bahar e Majidieh. Gli ebrei vivevano a Yousef Abad e Oudlajan. Gli zoroastriani nell’area di Roosevelt e College. Qualche famiglia iraniana che poteva permettersi una dimora più grande, nel corso degli anni decise di trasferirsi in un nuovo quartiere con palazzine particolarmente graziose: nasceva così, negli anni ’80, il quartiere di Vila Street dove sono cresciuto.

Le giornate a Vila avevano un ritmo inconfondibile. Il mattino era scandito dal grido agitato del nostro vicino zoroastriano, il Signor Varahrami. Urlava “si sta facendo tardi per la scuola!” sempre rivolgendosi ai figli, tutti con autentici nomi Pahlavi. Le note profumate del caffè armeno appena preparato inebriavano le strade sonnolente. Capitava di incontrare Hayk che suonava “Al Ayloughs”, brano tipico del folklore armeno, oppure Esther che improvvisava una canzone Yiddish Klezmer. Per strada si sorrideva gentilmente a un estraneo e si salutava sempre un volto familiare in fila alla panetteria. Per riguardo, ci si rivolgeva a un armeno o a un polacco con l’appellativo “Madam” o “Mousier”. Per gli altri si utilizzava il semplice “Khan”, che in persiano comunque indica una forma di rispetto.

Le strade del quartiere avevano il loro tratto peculiare: alcune incorniciate da imponenti alberi di acero, altre dominate dall’ombra delle querce inglesi o dagli alberi di rovere. E tutte erano rigogliose di gelsomino, il cui profumo si spargeva per tutto il quartiere.

Sulla strada che portava a scuola, c’era anche una deliziosa pasticceria danese conosciuta per le sue prelibatezze. Un po’ più avanti, il famoso “Lord Cafè” era gestito da una coppia armena, Leon e Anik: era il posto giusto per incontrare gli amici davanti a una tazzina fumante accompagnata dal “Gata” armeno, un pane dolce e tostato ripieno di noci e cannella. Di fronte al Lord Café si trovava Saint Sarkis, una moderna Cattedrale armena costruita nel 1970, dove si svolgevano cerimonie ed eventi culturali. Tutti nel quartiere erano stati invitati almeno una volta a un matrimonio o a un battesimo in quel luogo sacro, dove capeggiava un imponente monumento in memoria del genocidio armeno, una tragedia sentita da tutti i residenti di Vila, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro etnia.

Il carattere del quartiere era fluido non nell’eccezione più liberale del termine, ma nel suo tratto dinamico e multiculturale: le persone che lo abitavano pur essendo tra loro diversissime riuscivano a interagire superando qualsiasi barriera. A ristorante, per esempio, le opzioni erano diverse e si poteva scegliere tra cucina messicana, orientale e piatti tipici della cucina iraniana come il Chelo (Rice) Kebab. Nel quartiere vi era un ristorante gettonatissimo, il “Paprika” (da noi ribattezzato “Irena’s”) aperto da una signora ebrea d’origine polacca emigrata con le persecuzioni naziste. Qui si poteva gustare un menù tipico centroeuropeo e a tavola, di fronte a un delizioso piatto di Latkes, Kotlety e Gulasch, a fatica si distingueva il chiacchiericcio di sottofondo dei commensali che comunicavano in persiano, francese, ebraico, armeno e polacco.

Vila lasciava esterrefatte le persone che lo visitavano per la prima volta perché vi si respirava una pacifica armonia che altrove era andata inesorabilmente persa. Ricordo che il signor R, nostro vicino di casa, di tanto in tanto affermava che la rivoluzione non era ancora arrivata nel nostro quartiere.

Eppure, l’ultima volta che ho attraversato le strade di Vila, tutto era cambiato. Era come guardare negli occhi una persona, un tempo amata, con la coscienza di non trovare più traccia alcuna dell’anima di cui ti eri innamorato. Molti armeni, ebrei, polacchi e residenti di altre etnie avevano lasciato la città e il paese. Quasi tutte le botteghe di quartiere erano state chiuse e sostituite da uffici tecnici o copisterie. Al posto del Paprika c’era un triste edificio simile a una torre cupa e fredda. Dove le foglie dai mille toni di verde danzavano sul ciglio della strada, oggi si ergevano freddi cancelli di ferro a protezione del quartier generale delle forze armate. Da Vila era scomparsa l’essenza, la linfa vitale, l’Aura così come la definì Walter Benjamin. La maggior parte delle vecchie dimore erano già state demolite e al loro posto erano stati costruiti edifici antiestetici che non ricordavano in nulla quelli di un tempo.

Camminando per le vie in cui avevo vissuto avventure da mille e una notte, incrocio con angoscia la tensione e il dolore che si cela nelle espressioni tirate dei volti. Uno scambio casuale di saluti non è più motivo di gioia e convivialità. Entro allora d’istinto al Lord Café per chiedere notizie di un mio vecchio amico. Prima di sapere che anche lui aveva lasciato la città, lo sguardo mi cade su un cartello che ricorda ai clienti l’obbligo di indossare l’hijab. Fisso il cartello per interminabili secondi, fino a quando la signora armena all’ingresso si sente in dovere di spiegare che se non lo esponessero andrebbero incontro a serie “grane”. E si scusa con me, quasi con senso di colpa.

Aspetto il mio caffè allo stesso tavolo dove anni prima ero solito sedermi con mia madre sperando che, prima o poi, anche mio padre ci raggiungesse a sorpresa. La nostalgia mi travolge e i ricordi cominciano a riaffiorare, uno dopo l’altro, velocemente, come nell’ultimo atto di una pièce teatrale. Arriva il mio caffè. Ringrazio il cielo: almeno quello è sempre lo stesso!

All’uscita del Lord Café m’imbatto in un’altra insegna, ancora più grande: indica “Nejatollahi Street”, non Vila perché a Teheran e in tutte le città iraniane le strade e i quartieri ora ricordano i martiri della Rivoluzione e della guerra.

Mentre cammino per la strada dove ho riso e pianto, dove ho tenuto per la prima volta la mano di una ragazza e dove ho giocato con i miei amici, mi rendo conto di come l’autoritarismo abbia demolito non solo le splendide dimore di un tempo, ma anche frammenti di vita contemplativa. Ad ogni passo prendo atto, con sgomento, della miseria che si è riversata in quei luoghi, vittime del Regime e delle sue altisonanti politiche economiche. Così come ne sono state vittime tutti gli iraniani.

I ricordi che si affollano nella mia testa oggi convivono con il pensiero per le tantissime donne iraniane che, con straordinario coraggio, si ribellano alla teocrazia sfidando una repressione sempre più accanita. La loro lotta, sostenuta da fasce sempre più estese della popolazione, sta assumendo i connotati di una rivoluzione per la riconquista della libertà. Di un tempo e di uno spazio che forse non abbiamo perduto per sempre.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][thb_gap height=”40″][vc_column_text]

Shahin Modarres

[/vc_column_text][vc_row_inner][vc_column_inner width=”1/3″][thb_image full_width=”true” image=”22862″][/vc_column_inner][vc_column_inner width=”2/3″][vc_column_text]Nato a Teheran, iraniano, ha vissuto in Germania, Regno Unito e Italia, dove risiede tuttora. Ha completato gli studi in filosofia, scienze politiche ed economia specializzandosi in “Government and Politics” alla LUISS Guido Carli di Roma. Poliglotta ed interessato alle culture e alle lingue, Modarres ha svolto attività di ricerca presso il King’s College London, il NATO College e la Lomonosov University approfondendo temi complessi come la questione mediorientale  e le problematiche della scurezza nella regione.

Dopo una positiva esperienza di stage presso la nostra Associazione, Modarres è stato assunto all’ITSS, centro di studi e ricerche di Verona, con l’incarico di direttore dell’Iran Desk.

Nonostante gli impegni professionali, ha continuato negli anni a collaborare con ACDMAE e con la redazione di Altrov’è per cui cura l’aggiornamento semestrale del sito e la realizzazione grafica della newsletter.[/vc_column_text][/vc_column_inner][/vc_row_inner][thb_gap height=”40″][/vc_column][/vc_row]

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