Riconoscersi dagli occhi, la mia lezione di “vita” a Doha

di Chiara Lucarini Giordano

Il Qatar è una terra che solo da pochi anni si è sintonizzata con il mondo sviluppando infrastrutture ultramoderne, arricchendo di opere d’arte i propri musei e facendo timidi passi avanti sul fronte dei diritti. Una terra che ricordo nitidamente come una distesa di sabbia gialla incontaminata, sovrastata da un sole così rabbioso da intorpidire la mente di chi osa sfidarne la potenza. Quel sole, che illumina e riscalda le nostre città, qui riflette i suoi raggi su un deserto incandescente, con dune simili a montagne di dimensioni impressionanti che scendono con i loro pendii dolcemente, fino a toccare il mare. Il mare del Qatar è oggettivamente bello: cristallino, quando bagna i pendii delle dune a picco sul mare, di colore turchese quando accarezza le coste e si spinge al largo della città.

“Città” è una parola che poco si addice a terre con queste caratteristiche. Eppure, in uno dei deserti più incontaminati del mondo, sorge un’oasi: la città di Doha, non un’oasi naturalistica ma urbanistica d’avanguardia.

Doha (un po’ come la vicina Abu Dabi) oggi sembra un immenso parco dei divertimenti capace di emozionare ed intrattenere, offrendo opportunità culturali interessanti insieme a negozi d’élite e hotel indimenticabili.  Qualche anno fa, prima dei Mondiali di calcio, cioè prima del massiccio e sistematico intervento dell’uomo per domare quella terra arida e inospitale, Doha era infatti una città straordinariamente effervescente: dappertutto si vedevano gru e cantieri (a dispetto di qualsiasi regolamentazione del lavoro!) in attività sette giorni su sette, giorno e notte, tutto l’anno. Quei cantieri hanno lasciato il posto a splendide dimore per classi agiate. Donne e uomini di tutto il mondo, alla moda, iperconnessi e pronti all’era dell’intelligenza artificiale.

Altra peculiarità di Doha erano (e lo sono tuttora) le fontane e i sistemi automatici d’irrigazione per i giardini sempre verdi dei quartieri più turistici, che spruzzano acqua fresca a qualsiasi ora. Mi colpiva anche lo “struscio” quotidiano, nelle vie rinomate del centro, di auto lussuose e vistosissime in quantità tale da farle sembrare semplici utilitarie. Lusso e sfarzo lo si ritrovava nei porti, per lo più artificiali, anch’essi ordinati e pulitissimi, dove ormeggiavano immensi natanti fissi quasi fossero elementi di una splendida coreografia invece che mezzi di trasporto marittimo.

A Doha abbiamo vissuto per tre anni in una townhouse a “La Perla”, porto artificiale e quartiere residenziale per antonomasia. Era più bassa degli imponenti grattacieli della zona ma vi si scorgeva dall’alto una delle poche passeggiate pedonali gremita di locali e caffè, pensata per allietare la comunità internazionale nei pochi mesi freschi dell’anno. I qatariani, infatti, sono capaci di sopravvivere e continuare a lavorare indefessi a temperature proibitive, dando prova di resistenza senza uguali.  La popolazione locale, tuttavia, è appena il 10% dei circa 3 milioni di persone che abitano il Qatar che, di fatto, è mandato avanti dai tantissimi immigrati, vittime di sfruttamento, che si trasferiscono qui per lavorare. Molti di loro vengono da paesi poverissimi e accettano dure condizioni di lavoro, senza alcuna tutela, pur di guadagnare dei rial qatarini. E poi ci siamo noi, gli “expat”, membri della comunità diplomatica e, soprattutto, uomini d’affari che nonostante il problema dei diritti, non perdono occasioni per fare business. Per questa fetta di stranieri è difficile entrare in contatto con i locali, se non per necessità di natura commerciale, culturale o politica (ai più alti livelli).

Forse oggi le cose sono migliorate, ma durante la mia permanenza a Doha raramente ho scambiato un saluto con uomini o donne del posto. Queste ultime, del resto, sono “svelate” solo dal parrucchiere. In strada indossano l’abbigliamento tradizionale, il niqāb, che spesso lascia scoperti solo gli occhi. A volte anche le mani sono coperte da guantini neri e se non fosse per gli accessori di lusso, ovviamente griffatissimi, si confonderebbero con le loro “sorelle” più povere e sicuramente non altrettanto istruite. A fare la differenza tra gli uomini, tutti rigorosamente in abito tradizionale bianco con copricapo stile kefiah sono, invece, i rolex d’oro al polso e i sandali raffinati da passeggio. La loro vita si svolge soprattutto nelle sontuose ville a più piani e con piscina ma sono anche assidui frequentatori di ristoranti raffinati, grandi centri commerciali e prestigiosi hotel a cinque stelle dove capita che trascorrano le loro “staycation”, le vacanze in città.

Ricordo, in particolare, un episodio avvenuto all’interno del Women’s Hospital che ha sicuramente marcato la mia breve esperienza di vita a Doha. Ero in cura da uno specialista quatarino, professionalmente e umanamente straordinario, che tuttavia riceveva solo nell’ospedale pubblico dove i reparti uomini e donne erano rigorosamente separati e non era permessa alcuna eccezione alla regola, neppure per i mariti. Tutte le volte che vi dovevo andare mi ritrovavo sola, con la difficoltà della lingua, e circondata da donne completamente velate di nero: non era davvero allegro!

Un giorno, mentre stavo fissando un altro appuntamento, ebbi un piacevole scambio di battute con la responsabile degli uffici amministrativi: “Signora – mi disse, capendo le mie difficoltà – la prossima volta che torna in Ospedale venga direttamente da me!”. “Lei è molto gentile – pensai – ma io come faccio a riconoscerla?”. In realtà, quella domanda non la feci mai e le risposi, senza batter ciglio: “Grazie davvero…La riconoscerò dai suoi occhi!”.

Mentre pronunciavo quella frase realizzavo che avevo già imparato a leggere gli occhi delle donne e a riconoscerli. Oggi, a distanza di qualche anno, posso affermare senza esitazione che molto difficilmente avrei potuto immaginare tutta una vita in quel Paese. Criticarlo, tuttavia, sarebbe un esercizio fin troppo banale per chi ha la fortuna di potersi fare riconoscere dal volto. E non solo dagli occhi!

Chiara Lucarini Giordano

Romana, mamma di quattro bambini nati in quattro diversi paesi, dopo la laurea alla Sapienza prende l’abilitazione per esercitare come psicologa dello sviluppo e dell’educazione. Per formazione ed inclinazione si è sempre stata interessata agli scambi e all’intermediazione culturale, campo in cui matura esperienze di studio e di volontariato collaborando con diverse ONG e ONLUS in Sud Africa, Marocco, Albania, e Francia.

È stata socia della Sezione Femminile della Croce Rossa italiana di Roma ed ha seguito, tra gli altri, anche un corso di formazione specifica in Diritto Internazionale Umanitario all’Istituto di Diritto Internazionale (IIHL) di Sanremo. Ha vissuto con il marito diplomatico a Doha (Qatar) e a Parigi. Oggi è consigliera ACDMAE.

1 Comment
  1. Grazie Chiara ci hai dato una descrizione perfetta e sincera di un paese (di una capitale) del futuro ma ancora ancorata a tradizioni ferree! Mi ha impressionato la percentuale (10%) dei nativi in confronto agli immigrati per ragioni di lavoro…chissà se i tuoi figli (le generazioni future) assisteranno un giorno a una rivoluzione vera in quella parte del mondo?

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