Un nuovo “passaporto” per conciliare lavoro e vita familiare: istruzioni per l’uso

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di Renato Varriale

Dopo la svolta storica della Circolare sulla parità di genere, che conferma la Farnesina tra le amministrazioni italiane più avanzate in materia, le nuove norme sul rilascio del passaporto diplomatico rappresentano un importante passo avanti verso il raggiungimento di quel benessere organizzativo che, conciliando meglio lavoro e famiglia, va anche a vantaggio della produttività del lavoro. L’aggiornamento del cosiddetto “decreto Passaporti”, entrato in vigore a novembre, ha già permesso, secondo la Direzione del personale, di “risolvere positivamente alcune situazioni”. Come? Su che basi normative, e con quali riflessi sulla vita professionale del diplomatico e della sua famiglia?

Sono tanti i quesiti che ci hanno spinto, consapevoli dell’importanza di questo passo in avanti, a chiedere un’intervista direttamente a chi, da anni, gestisce uno dei dossier “interni” più delicati e complessi: le opportunità di lavoro per il coniuge o il partner qualificato che segue il funzionario diplomatico durante il suo periodo di servizio all’estero.

Posto che il nostro sistema non consente l’inserimento di professionalità esterne negli effettivi della nostra rete diplomatica e consolare, cui si accede, per legge, solo ed esclusivamente dopo aver superato un concorso pubblico, la decisione dell’Amministrazione di rilasciare, ad alcune precise condizioni, il passaporto diplomatico al partner che intende proseguire la sua carriera pur trovandosi all’estero, al seguito del consorte in servizio all’estero – presso un altro ufficio, un’azienda straniera o in modalità virtuale (grazie al telelavoro) – sembra la prima concreta misura attiva a sostegno di chi non [intende] congelare la sua esperienza professionale, ne’ fare a meno dei contributi pensionistici o, semplicemente, di uno stipendio in più, cioè di una risorsa cruciale, specie quando si rientra a Roma.

Al Direttore Generale per le Risorse e l’Innovazione (DGRI) Renato Varriale chiediamo quindi se e in che misura sia intervenuto un cambiamento di sensibilità dell’Amministrazione rispetto al tema del lavoro del partner all’estero.

Se per cambiamento intendiamo un drastico mutamento di impostazione rispetto al tema della conciliazione tra vita familiare e lavorativa direi di no, perché è da almeno una ventina d’anni che la nostra Amministrazione si pone questi problemi ed è attenta alle esigenze dei nuclei familiari, sia quelli in senso stretto che quelli allargati con altri famigliari a carico (fra cui anziani o persone che necessitano particolare assistenza), che dei nuclei di fatto e delle famiglie LGBTIQ+. Ciò che è accaduto è piuttosto una presa di coscienza più marcata della necessità d’intervenire con provvedimenti più incisivi come, ad esempio, quello che riguarda i passaporti. E’ un fatto innegabile che un lavoratore sereno nella sua sfera privata rende di più anche sul lavoro, ma la realtà è che la serenità famigliare per noi non è importante soltanto perché strumentale all’efficienza, ma anche e soprattutto come valore morale e costituzionale.

In questa stessa ottica, e sul piano più in generale, abbiamo anche firmato un accordo per garantire la copertura assicurativa dei dipendenti e dei loro familiari all’estero.

 Quanto la pandemia e le priorità del nuovo governo di implementare le riforme riviste dal nostro Pnrr hanno contribuito a quest’accelerazione?

I meriti del ministro Di Maio nell’imprimere quest’accelerazione al processo sono indiscutibili: è stata approvata una circolare interna sulla parità di genere ed è in cantiere un’altra circolare sui metodi di lavoro. Stiamo ovviamente parlando di un processo evolutivo che è stato accolto con entusiasmo anche dal nuovo Segretario Generale, sulla scia di altre iniziative – magari meno vistose – che erano state adottate dai suoi predecessori. Ad esempio furono rilasciati i primi passaporti diplomatici a compagni dello stesso sesso del funzionario in servizio all’estero. Ripeto, si tratta di un processo in continua evoluzione nel corso del quale si alternano momenti di avanzamento più veloce a momenti di maggiore vischiosità. Ora, per fortuna, stiamo vivendo un momento di forte accelerazione cui ha contribuito anche la pandemia che ci ha costretto ad organizzare la nostra vita lavorativa a domicilio. Abbiamo scoperto così che un fenomeno residuale poteva diventare un fenomeno più abituale nel quadro delle prestazioni lavorative. Con l’ultima normativa si è affermata la necessità di tornare in presenza ma questo non ha eliminato lo smart working: semplicemente, ha fatto emergere la necessità di normarlo più adeguatamente. Probabilmente anche le amministrazioni arriveranno, come già tante aziende nel privato, alla necessità di trovare un equilibrio tra lavoro in presenza e da remoto, perché uno dei pochi fattori positivi della pandemia è stato, appunto, quello di dimostrare che si poteva lavorare intelligentemente ed efficientemente – a certe condizioni e in certa misura – anche restando a casa e riuscendo così a meglio conciliare esigenze famigliari e lavorative.

 Il nuovo testo del decreto, nello specifico, rimanda anche alla presenza di accordi bilaterali e alla disciplina del Paese di notifica: quanti accordi bilaterali abbiamo ora in vigore?

Abbiamo sei accordi bilaterali firmati e ratificati dai Parlamenti con Argentina, Cile, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Uruguay e Brasile. Sono presenti anche intese semplificate, già in vigore nel quadro giuridico Ue, con più della metà dei Paesi membri, ovvero 17 Paesi europei in tutto, intese che abbiamo cominciato a negoziare oltre dieci anni fa. Il Cerimoniale ha anche regolarizzato questa materia tramite scambi di note verbali con Canada, Messico, Panama, Norvegia, Svezia, Sud Africa, Armenia, Azerbaijan e Serbia. Infine, sono in corso i negoziati con altri nove paesi: Giappone, India, Filippine, Malesia, Colombia, Israele, Svizzera, Ucraina e Regno Unito.  Quando concluderemo questi nuovi accordi arriveremo a una quarantina di Paesi: la nostra rete conta oltre 300 sedi ma in realtà i paesi che ospitano Ambasciate sono 127 e i nostri accordi includono grandi Paesi come Stati Uniti, Canada, paesi latino americani e asiatici e buona parte dell’Ue, e quindi arriviamo a coprire circa il 30% circa della nostra rete e oltre il 40% del nostro personale.

Le intese, strumento più snello per normare le casistiche bilaterali, producono gli stessi effetti degli accordi bilaterali con la sola differenza che essendo basate sul solo scambio di note verbali, possono essere revocate più facilmente, su iniziativa del ministro degli esteri del Paese stesso. Ma questo molto difficilmente potrà accadere se faremo un uso appropriato e corretto dello strumento.

 Il testo del nuovo decreto fa esplicito riferimento agli “effetti” del lavoro svolto nel Paese di notifica della persona. Cosa significa precisamente questa espressione?

State accendendo le luci sulla questione più delicata del dispositivo, quella che riflette la scommessa dell’Amministrazione sul buon senso e sulla correttezza dei suoi dipendenti e delle loro famiglie. Ho già avuto modo di esemplificare alcuni casi in cui il rilascio del passaporto a una persona che lavora nel paese di accreditamento può creare distorsioni della concorrenza oppure malumori, sospetti, se non addirittura cause penali, civili ed amministrative. Per superare questo tipo di obiezioni al rilascio del passaporto diplomatico, abbiamo introdotto il concetto di “effetti nel Paese”.

E’ evidente che occorre ancora maturare un’esperienza di come questo concetto sarà applicato, ma posso dire come noi lo intendiamo: se il lavoro del coniuge convivente prende le mosse dal paese di residenza, supponiamo l’Italia, e questo lavoro (operato, supponiamo negli Stati Uniti, da computer, al telefono, su smartphone o anche attraverso incontri sul posto) non influisce né direttamente né indirettamente negli Stati Uniti ma solo sull’Italia o sul resto del mondo, in quel caso è rispettato il criterio perché, pur lavorando, non c’è né un impatto né un’interferenza nella realtà sociale, civile, politica, se non culturale ed economica, del Paese ospitante e quindi non c’è potenzialmente una fonte di conflitto con quella realtà locale. Dobbiamo invece essere consapevoli che un consorte che svolga un’attività lavorativa che ha effetti diretti nel Paese di destinazione può avvalersi dello status diplomatico solo se ciò sia previsto da un’intesa bilaterale.

 Evidentemente sarà la prassi a metterci di fronte a tutta una serie di situazioni che dovremo interpretare con grande buon senso e forse anche un pizzico di creatività, mantenendo al contempo la massima attenzione per evitare che non si producano situazioni che possano avere ricadute negative. Per ora, agendo in un ambito così complesso e dalle mille sfaccettature, abbiamo deciso di concedere il passaporto diplomatico, quando è indispensabile per l’accreditamento e per dare la necessaria serenità a chi è in servizio all’estero e alla sua famiglia, permettendo ai familiari di proseguire la propria attività. E’ necessaria però la consapevolezza delle regole per l’utilizzo del passaporto: anche per questo richiederemo la firma di un impegno. In questo senso, entriamo in un campo in cui il principio di fiducia e buona fede diventa fondamentale per il successo dell’intera operazione.

 L’Italia aderisce alle best practices seguite da altri Paesi in tema di lavoro?

È giusto consentire, come sopra detto, che il coniuge del dipendente in servizio all’estero possa svolgere un proprio lavoro, il quale, nel rispetto di certe condizioni, non sia di ostacolo al rilascio del passaporto diplomatico. Trovo però altrettanto giusto ricordare in questo contesto il prezioso sostegno fornito tradizionalmente da tante e tanti consorti ai partner nello svolgimento delle attività di promozione del Paese svolte dal nostro personale all’estero: un’opera preziosa di cui non vorremo mai fare a meno. Sappiamo tutti che quando il legislatore introdusse le maggiorazioni di famiglia per il dipendente in servizio all’estero tenne anche conto dell’impatto sulle famiglie della vita di rappresentanza connessa al servizio e di conseguenza dei maggiori oneri ricadenti sul dipendente stesso.

Quindi, guardiamo senz’altro al futuro ma senza dimenticarci quest’aspetto che viene dal passato che per i diplomatici è tanto più decisivo quanto più alta la carica ricoperta. Detto questo, è vero che ci sono best practices cui si rifanno altri Paesi: l’Amministrazione ne è al corrente ma non può per il momento seguirle, in quanto abbiamo un vincolo costituzionale rispetto al pubblico impiego cui, ripeto, si accede unicamente per concorso mentre altre tipologie contrattuali meno vincolanti (come le collaborazioni a contratto) restano molto circostanziate e comunque di difficile applicazione.

Posso tuttavia promettervi, senza farvi illudere sui tempi e sui modi, che proveremo a studiare la materia chiedendoci, per esempio, se sia effettivamente necessaria una modifica costituzionale per permettere a un coniuge di lavorare in uno dei nostri uffici all’estero. Questa è la domanda che ci porremo nei prossimi mesi, ma oggi la parola d’ordine deve essere “cautela”, per non alimentare false speranze. 

Siamo in un processo che spero non diventi né turbolento né confuso perché poi tutto quello che si confonde rischia di vanificare i nostri sforzi innovativi e di farci tornare indietro sui nostri passi. L’avanzamento non deve essere troppo lento, ma metodico e con costanti e realistici progressi.

Susanna Bonini Verola e Lavinia Coppola De Nicolo[/vc_column_text][/vc_column][vc_column][thb_gap height=”40″][thb_gap height=”30″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Renato Varriale

[/vc_column_text][vc_row_inner][vc_column_inner width=”1/3″][thb_image full_width=”true” image=”22346″][/vc_column_inner][vc_column_inner width=”2/3″][vc_column_text]Nato a Napoli, si laurea in Giurisprudenza nel 1981. Nel 1984 entra in Carriera Diplomatica e nel 1986 viene nominato Console a Belo Horizonte.

Dal 1990 al 1994 ricopre le funzioni di Capo dell’Ufficio Economico Commerciale presso l’Ambasciata d’Italia a Cuba. Dal 1994 al 1997 e’ in servizio alla Direzione Generale per il Personale. E’ nominato Vice Capo Missione a Teheran dal 1997 al 2000, e Consigliere alla Rappresentanza Permanente presso l’OSCE dal 2000 al 2004.

E’ Capo dell’Ufficio movimenti interni ed esteri della Direzione Generale per il Personale dal 2004 al 2007, Vice Direttore Generale per le Risorse Umane e l’Organizzazione dal 2007 al 2011 e Ambasciatore a Lisbona dal 2011 al 2015.

Alle dirette dipendenze del Direttore Generale per la Cooperazione allo Sviluppo dal 2015 al 2016, Ispettore Generale del Ministero e degli Uffici all’estero dal 2016 al 2019.

Nominato Ambasciatore il 2 gennaio 2019, dal 15 gennaio 2019 ricopre l’incarico di Direttore Generale per le Risorse e l’Innovazione.[/vc_column_text][/vc_column_inner][/vc_row_inner][thb_gap height=”40″][/vc_column][/vc_row]

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