Il Reverse Cultural Shock: quando tornare a casa diventa una sfida

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di Anna Muscetta Fornara

[/vc_column_text][thb_gap height=”30″][vc_column_text]Settembre, tempo di bilanci, di progetti e… Di rimpatri, per chi ha una vita professionale scandita dai tempi della Farnesina. Tornare a casa dovrebbe essere bello e, soprattutto, facile. Il percorso a ritroso – il ritrovare abitudini, affetti e consuetudini che l’espatrio ci ha sottratto – sembra un passaggio quasi naturale. Ma non è sempre così.

Anche a me, per esempio, piace vedere settembre come l’inizio dell’anno, in linea con l’anno scolastico. La mia “rentrée” 2019 non è stata da meno: un nuovo inizio, altri obiettivi da raggiungere, nuove sfide all’orizzonte. E un “reverse cultural shock” con cui fare i conti! Chi, come molti di noi, è già tornato almeno una volta “alla base” probabilmente ha capito di cosa si tratta. E sa anche, purtroppo, che questo particolare tipo di “shock” è di gran lunga lo “scoglio” più insidioso da affrontare quando si rientra finalmente a casa!

Per chi non ne avesse ancora sentito parlare, il “ reverse cultural shock” è quella condizione di disagio che investe aspetti psicologici, emozionali e culturali, legata al rientro nel proprio paese dopo un’esperienza di espatrio. Forse meno conosciuto del “cultural shock”, lo shock da ritorno non è meno impegnativo dal punto di vista dell’esperienza di chi si sposta per lavoro. Se, da una parte, è facile comprendere il significato del termine e l’impatto psicologico che può provocare, dall’altra sono ancora poco conosciute l’insieme delle difficoltà che investono la persona che sta cercando di riadattarsi al proprio ambiente e alla propria cultura d’origine.

Per le famiglie dei funzionari italiani, per esempio, tornare a casa vuol dire soprattutto rientrare nella Città Eterna e fare i conti con i suoi meandri, le difficoltà del quotidiano, un traffico impossibile e l’innegabile fascino decadente ben descritto in film come “La Grande Bellezza “. Per me che sono romana rientrare lo scorso anno è stato comunque scioccante. Benché fosse la mia città, un posto che conosco benissimo per averci anche lavorato a lungo, è stato molto duro abituarsi nuovamente alle regole di sopravvivenza di questa città. Non oso immaginare cosa possa essere per chi romano non è o, addirittura, per chi è straniero perché la Capitale, può risultare anche molto provinciale ed è certamente una città  difficile, oserei dire ostile, a tutti: romani e non, con figli o senza, giovani e meno giovani.

Il “Reverse cultural shock”, lo ammetto, ha colpito anche me, una romana doc, in modo sottile ma inesorabile. Si è manifestato nel momento in cui ho avvertito un senso strisciante di “non appartenenza”: non mi sento più romana, ma non sono certo una “straniera”, non sono una donna lavoratrice in senso stretto ma neppure una casalinga. Qual è il mio posto in questa città?

A dispetto del suo nome, la scuola internazionale che frequentano i miei figli è un ambiente tipicamente romano: mamme lavoratrici tristemente nevrotiche ed esauste dalla fatica quotidiana, mamme casalinghe che si concentrano spasmodicamente su dettagli piuttosto inutili, famiglie della borghesia romana, della “Roma bene”, che vogliono offrire alla prole buone frequentazioni e maggiori opportunità con la conoscenza delle lingue. Per noi, invece, mandare i figli in queste scuole, continuando a pagare rette proibitive, non è solo uno sforzo economico ma anche un compromesso quotidiano. Fra le critiche di chi non capisce che mantenere il sistema educativo, ancor prima della lingua, è protettivo nei confronti di ragazzi che devono comunque fare fronte a numerosi cambiamenti. Nella costante accettazione di una cultura che non è la mia e non la sarà mai, ma comprendendo tutti i pregi e i vantaggi formativi che ne derivano per i figli. Nel dispiacere di non poterli crescere in quella scuola pubblica che, nonostante tutto, mi sento ancora di sostenere. Una scuola sì sgangherata ma comunque gratuita, accessibile, inclusiva come raramente sono altri sistemi.

Cerco quindi di andare avanti senza fare troppo caso ai continui “appunti” che mi vengono fatti. Giudizi tranchant che mi mettono a disagio tanto da spingermi a rispondere con ironia che i miei figli frequentano la scuola inglese “perché siamo un po’ snob”. Tanto, alla fine, molte persone lo penserebbero comunque – mi dico – e allora meglio dar loro argomenti a sostegno della loro tesi. Il classico “contentino” per chiudere velocemente conversazioni inutili con persone che giudicano senza sapere e senza conoscere.

E ora tentiamo di ricapitolare quanto molti di noi stanno vivendo in questi giorni che è ciò che ho vissuto anch’io: avete superato il distacco dagli affetti e da un Paese “X” che è stato “casa” per tanti anni; avete affrontato un trasloco complicato, magari intercontinentale, per lo più in solitudine perché nel nostro sistema, a differenza di altre diplomazie, il trasloco è un affare privato e non (come dovrebbe essere) un evento previsto per lavoro e quindi coordinato e supportato dall’Amministrazione. Avete cercato o state cercando una casa da affittare o da comprare e vi siete dovuti districare tra difficoltà burocratiche e comunicazioni non sempre affidabili, generalmente senza disporre di rete alcuna, se non la benevola la solidarietà di qualche consorte gentile d’animo. Se avete dovuto eseguire lavori in casa, anche solo di ordinaria manutenzione, avete brancolato nel buio per giorni oppure collezionato esperienze devastanti, prima di trovare il provvidenziale “handy man”, l’“omino” affidabile che risolve problemi (una figura di cui qualsiasi ambasciata all’estero è provvista e che normalmente reperisci non appena atterri in una nuova realtà).

Ancora, avete cercato e faticosamente scelto la scuola per i figli. Li avete seguiti pazientemente in un non facile inserimento. Ecco, finalmente, se avete superato con successo tutte queste prove allora può iniziare il nuovo anno, la nuova avventura. Siete abbastanza rilassati e carichi? La domanda è d’obbligo perché esplorare la Città Eterna, finanche arrivare ad amarla, richiede esperienze direi paragonabili a quelle narrate nei più spaventosi “disaster movies” in cui il protagonista si trova nella città distrutta dalla guerra nucleare o dagli alieni e si accorge che è solo e deve capire come sopravvivere. Trovare acqua, cibo e capire che comunque è rimasto solo al mondo o al massimo in compagnia di forze nemiche che lo vogliono catturare per eliminarlo. E non esagero, parola di romana, nata e cresciuta a Roma.

Bene, a questo punto il consorte sarà al lavoro e i figli, se sono abbastanza grandi, quarantena permettendo, saranno a scuola…Si apre un abisso di solitudine difficile da colmare, anche perché spesso il rientro a casa, anche agli occhi della famiglia e degli amici più stretti, è una tappa “scontata” e quindi sottovalutata rispetto agli altri espatri. Come se rientrare non fosse un espatrio a tutti gli effetti. I sentimenti e le fasi che si attraversano nel “reverse cultural shock”, invece, sono sicuramente sovrapponibili a quelle del “cultural shock “ perché rientrare a casa può essere dunque molto difficile o, per certi versi, anche più difficile di partire per l’estero.

Non credo purtroppo che ci siano formule preconfezionate che possano andare bene per tutti e che possano sostenere chi rientra dopo un espatrio più o meno lungo. Probabilmente potrebbe esser d’aiuto cercare d’identificare uno o due attività, un hobby oppure delle amiche che vi facciano sentire particolarmente bene. E, partendo da lì, incominciare a tessere con pazienza una tela di relazioni, abitudini e affetti il più possibile salda, che vi aiuti a ripartire con la consapevolezza che il processo di riadattamento sarà lento e potrebbe durare anche un anno, se non di più. Non basterà aspettare pazientemente: per tornare a sentirsi “a casa” dovrete fare la vostra parte, mettendoci impegno, capacità d’accettazione e, soprattutto, tanta “self compassion”.[/vc_column_text][thb_gap height=”30″][vc_column_text css=”.vc_custom_1603468320051{border-top-width: 1px !important;border-right-width: 1px !important;border-bottom-width: 1px !important;border-left-width: 1px !important;padding-top: 20px !important;padding-right: 20px !important;padding-bottom: 20px !important;padding-left: 20px !important;border-left-color: #000000 !important;border-left-style: solid !important;border-right-color: #000000 !important;border-right-style: solid !important;border-top-color: #000000 !important;border-top-style: solid !important;border-bottom-color: #000000 !important;border-bottom-style: solid !important;}”]Per saperne di più: 

Il Cultural Shock è il termine coniato nel 1951 dall’antropologa statunitense Cora DuBois per descrivere stati d’ansia e disorientamento causati da un improvviso cambiamento di stile di vita dovuto a un trasferimento in un ambiente socio-culturale differente, per esempio all’estero. Il candese Kalervo Oberg riprese il termine nel 1954 quando elaborò la teoria secondo la quale lo shock culturale è paragonabile a una malattia professionale, che si sviluppa in fasi e prevede sintomi precisi.

Sono più recenti ma altrettanto approfonditi gli studi sul Reverse Cultural Shock. L’allarmante casistica di “expat” che soffrono di tale patologia ha spinto lo stesso Dipartimento di Stato Usa a finanziare un filone specifico di ricerca.

Informazioni su:

https://2009-2017.state.gov/m/fsi/tc/c56075.htm

https://www.isepstudyabroad.org/returning-home/how-to-deal-with-reverse-culture-shock;[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][thb_gap height=”30″][thb_gap height=”30″][vc_column_text]

Anna Muscetta Fornara

[/vc_column_text][vc_row_inner][vc_column_inner width=”1/3″][thb_image image=”20498″][/vc_column_inner][vc_column_inner width=”2/3″][vc_column_text]Neuropsichiatra infantile e mamma di due ragazzi.
Nata e cresciuta a Roma fino a 34 anni, ha svolto lavoro clinico in Italia, in Senegal e Uganda, e lavorato con l’OMS alla pubblicazione di linee guida per la gestione delle malattie neurologiche in Paesi in Via di Sviluppo.
Al seguito del marito, ha vissuto in Svizzera, in Africa occidentale ed orientale.
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4 Commenti
  1. Come ti capisco… Ho vissuto malissimo tutti i rientri a Roma, a fattiva mi reinserito, per poi driver mollare tutto e andare via di nuovo. Facciamoci coraggio

  2. Cara Anna complimenti per il tuo articolo! Hai saputo raccontare in modo semplice e diretto una situazione nella quale si trovano tante di noi rientrando a Roma. Capire che non siamo sole può essere un punto di partenza per risolvere il problema.

  3. Anna, da non credere: sto scrivendo un libro (uscirà a maggio 2021) con altre amiche consorti di diverse parti del mondo e il mio capitolo parla proprio delle diffioltà del rientro in patria! Un tema, come dici benissimo anche tu, molto sottovalutato oltre che dall’Amministrazione anche dalle persone che ti aspetterescti ti dovrebbero sostenere di più. Grazie per avere condiviso la tua esperienza. Marzia

  4. Bello leggere l’articolo sul reverse cultural reverse shock di Anna Muscetta.
    Descrive in maniera efficace quella “sorpresa” che ci attende a Roma al ritorno dall’estero.
    Dopo la centrifuga personale che si sperimenta dall’esperienza in altri paesi non ci si attende quello strano sentire che investe da Fiumicino in poi. A poco servono i programmi e i ricordi degli anni passati precedentemente in patria per affrontare l’inevitabile guazzabuglio che si prospetta al rientro. In realtà non è un rientro ma un’altra sede forse più familiare ma non per questo esente da sfide nuove non di rado complesse. Articolo ben scritto e ben pensato da una penna ottimista e consapevole…

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